Oggi gioco in difesa

…non grazie… ma nonostante

di Carmen Gasparotto

30 agosto 2021

Ci sono storie che ascoltiamo e che decidiamo di custodire come dono intimo da parte di chi ce le ha raccontate. Ci sono invece storie per le quali proviamo il desiderio forte di raccontarle. Ogni storia rappresenta un filo invisibile che tiene insieme l’esistenza di ciascun uomo e di ciascuna donna, le loro esperienze, le relazioni, il vissuto a cui appartengono. La loro identità. A volte la storia che ascoltiamo ci induce a metterci nelle scarpe dell’altro, a non rifuggire dai suoi sbagli, da un percorso accidentato, dalle sue ragioni, dai suoi ripensamenti.

La storia di Fabrizio Maiello è una storia di trasformazione. A volte bruco, altre bozzolo duro e coriaceo, altre ancora crisalide e infine farfalla.

Un pallone da calcio, un futuro promettente nelle giovanili del Monza, un sogno quasi realtà di approdare al Milan: parte da qui la storia di Fabrizio. Orgoglio di un padre e di una madre arrivati da Napoli nel Sud della Brianza. Un’adolescenza e una prima giovinezza vissute in scrupolosa osservanza del rigore sportivo: gli allenamenti, la dieta, a letto presto la sera, la diserzione delle serate in discoteca con gli amici. Nemmeno una birra, né una sigaretta. A poca distanza il quartiere La Comasina, uno di quei posti dove non ti fidi a uscire la notte, dove le famiglie legate al clan della droga spadroneggiano da decenni. Un quartiere il cui nome è legato alla banda di Renato Vallanzasca. Molti degli amici di Fabrizio, in quegli anni, hanno già conosciuto il carcere minorile.

«Il calcio era la mia passione. Il pallone era lo scudo di Capitan America, non lo sapevo ancora, ma il pallone mi proteggeva da un mondo pieno di insidie». Poi quell’infortunio grave al ginocchio. La maledizione. Il sogno che va in mille pezzi. La disillusione cocente e repentina. «Non volli nemmeno farmi operare. I miei genitori insistevano: “Non puoi restare zoppo!” Sono scappato dall’ospedale». La luce si era spenta e la rabbia di Fabrizio trova rifugio nella droga e nelle spire di un vortice che lo risucchia. «Mi dicevo che tanto avrei potuto smettere quando volevo. Pensavo di controllare la mia vita come controllavo il pallone: uno scarto, un dribbling, il tiro in porta. Invece non fu così: non ero più padrone di me stesso. L’ago della mia bussola era in fibrillazione, non indicava più il nord, mi orientava verso un crescendo di violenza. Non rispettavo me stesso e nemmeno le persone che incontravo sul mio cammino».

A 19 anni Fabrizio entra in carcere per la prima volta. Il pallone gli si ripresenta come una Circe ammaliatrice. Una lusinga. In carcere il pallone è cazzimma, ovvero l’arte di sopravvivere con astuzia. Se ti sai destreggiare bene con il pallone sei rispettato, ma il rispetto in carcere ha a che fare con il potere più che con un riconoscimento morale. Fabrizio esce dal carcere, ma la sua libertà dura poco: l’orizzonte della rieducazione sembra essere impraticabile. Lo stadio di Monza si trova vicino al carcere. «Sentivo i richiami del mister durante gli allenamenti, ascoltavo le formazioni quando le squadre scendevano in campo. Quella doveva essere la mia vita. Credevo di impazzire». Fu dopo un nuovo arresto a cui seguì la reclusione a San Vittore che Fabrizio perde la lucidità. La vita si ritira come per un’eterna bassa marea. Fabrizio viene rinchiuso in OPG * (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) a Reggio Emilia. Erano gli anni ‘90, gli OPG avevano sostituito – solo di nome – i manicomi criminali.

«Allora l’OPG era una scappatoia per nomi eccellenti del mondo mafioso in modo da uscire prosciolti. Potevi trovare il capo mafia, ma anche il povero disgraziato, il mendicante, il mentecatto. Basaglia sembrava non essere mai esistito. Mai passato in quel luogo sudicio, di contenzione fisica e chimica, di TSO per socialmente pericolosi. Di annientamento di tutto ciò che avrebbe potuto avvicinarsi almeno un po’ alla parola “umano”».

È affabile, Fabrizio. La voce è gentile, pacata, imperturbabile; non varia mai il tono. La sua parola è spoglia di qualsiasi fronzolo retorico. Nonostante sia abituato a parlare di sé è come se si raccontasse per la prima volta. Mi colpisce la collana d’oro pesante che porta al collo, gli anelli, i tatuaggi dai contorni imprecisi. «La mia compagna, dice che è da “tamarro”… »

È come se quel mondo, quello che della sua vita era stato, negli aspetti più rozzi, più volgari e più foschi venisse conservato sul corpo ed esibito come stigmate.

«Più volte ho chiesto il pallone in OPG. Nonostante lo spazio ristretto – un cortile di 24 passi per ogni lato – nelle due ore d’aria del pomeriggio avrei voluto palleggiare… »

Il pallone ritorna sempre nel racconto di Fabrizio. Forse come unica sensazione di gioia, una sensazione che lo riporta all’infanzia. Il pallone come giocattolo, un simbolo perfetto al quale aggrapparsi. «… invece mi veniva negato e rimanevo così inchiodato alle urla, ai deliri, al terrore. Al ferro che batteva la sbarra e al pianto di Giovanni, che stava a tre celle dopo la mia. Era come un bambino Giovanni. Cresciuto da trovatello, allevato dal parroco di un piccolo paese del Friuli, era benvoluto da tutti. Poi, un giorno, per una sigaretta ha spintonato un signore molto anziano fuori dall’osteria del paese… il finale è stato tragico. Giovanni in OPG era malato da tempo, era pallido, gli occhi liquidi e impauriti e le mani strette alle sbarre; la cella era il suo mondo e la sua solitudine».

La vigliaccheria e il disprezzo dei più forti si scaglia contro il più debole. Giovanni, oramai non autosufficiente – la sua cella emanava odore di urina e di ogni altro umore – veniva bersagliato dagli altri detenuti con uova marce e pane raffermo. Qualcosa scatta nella mente di Fabrizio, come se anche l’orizzonte di quello spazio ristretto avesse raggiunto il suo limite, come se il male non avesse più forma ulteriore di svelamento. «Andai dal medico di guardia e chiesi che Giovanni venisse messo in cella con me. Il medico si mise a ridere. Disse che era impossibile perché Giovanni aveva bisogno di cure, perché era ammalato, perché avrebbe avuto ancora pochi mesi di vita. Insistetti. Ebbi l’autorizzazione dalla direttrice».

Fabrizio si prende cura di Giovanni come di un fratello minore. Gli cambia il pannolone, lo imbocca, lo mette a letto, gli sistema la maschera dell’ossigeno quando serve. Insieme guardano la televisione. «Continuava a dire di essere figlio di Eisenhower e molte altre cose poco probabili, ma per la prima volta lo vidi sorridere. Gli davo la mano, camminavamo insieme. Giovanni cercava il mio sguardo come un bambino cerca quello di un padre o di una madre».

La salute di Giovanni migliora e così la sua speranza di vita. Un mattino il pallone ricompare nella storia di Fabrizio. Entra in cella tra le mani della direttrice: «Lo tenga, mi disse, e non mi faccia pentire di averglielo lasciato». Come un genitore restituisce il videogioco sequestrato al proprio figlio raccomandandone un uso misurato, così quel pallone assume il volto della tenerezza, del riconoscimento e della fiducia. È uno stimolo immenso per Fabrizio che inizia a palleggiare come se non avesse mai dimenticato il suo talento e le sue prodezze.

Giovanni sta bene e si avvicina per lui il tempo di ritornare nella sua terra, il Friuli. Sarà accolto in una residenza per persone fragili di nuova costruzione. Il giorno della sua uscita dall’OPG Giovanni chiede di non andare solo, vuole con sé Fabrizio. Il distacco e doloroso. Si lasciano con una promessa: «Verrò a trovarti al primo permesso premio». E così sarà. Fabrizio rivede Giovanni durante il suo primo permesso premio, dopo circa un anno. Ho guardato il filmato di quella giornata indimenticabile. Giovanni tiene la mano in quella di Fabrizio e non vuole staccarsi da lui. Chiede di essere imboccato durante il pranzo servito al tavolo. Una pretesa da bambino capriccioso, ma Fabrizio lo fa. Nessuno vorrebbe mai arrivasse la fine di quel pomeriggio, ma gli accompagnatori chiamano e Fabrizio va.

Per il tempo in cui dovrà rimanere ancora in OPG, il pallone diventa buon amico. Passa dalla testa alle spalle di Fabrizio come in esibizioni circensi. I palleggi con i piedi raggiungono numeri da record. I sogni di Fabrizio iniziano ad assumere la forma del riscatto.

E sarà proprio così, con i piedi, con la testa e soprattutto con il cuore che Fabrizio recupererà il tempo perduto come messaggio per sé, ma soprattutto per tutti noi.

Ascoltando la storia di Fabrizio Maiello ho pensato che il racconto sia una specie di guarigione: se sei in grado di raccontare un tale disordine, una tale sofferenza, una tale catastrofe, se sei in grado di raccontare tutto questo, allora davvero ti sei salvato. Poi ho riflettuto sui molti altri aspetti che riguardano il carcere e la funzione della pena perché, una storia come questa, potrebbe rafforzare la convinzione che la pena carceraria possa tradursi in una opportunità di cambiamento.

La biografia di Fabrizio ci dice che non è così. Se oggi la recidiva quando la pena viene scontata dietro le sbarre è intorno al 70%, significa che il carcere concepito come unica soluzione al principio rieducativo ha fallito. Il bene in questa storia assume le sembianze della cura. Quel bene che Fabrizio riverserà su Giovanni, uomo sfortunato traghettato in OPG. Giovanni e Fabrizio si salveranno non grazie alla carcerazione e all’OPG, ma nonostante le condizioni di vita patologiche in grado solo di peggiorare lo stato psicofisico e morale delle persone detenute nonché di chi svolge una professione all’interno di questi luoghi.

Fabrizio Maiello vive oggi in provincia di Reggio Emila. Lavora all’interno di una Cooperativa e si occupa della cura del verde pubblico. Ha una compagna straordinaria, responsabile ospedaliera di un reparto di ostetricia, che ha conosciuto durante il suo trascorso in OPG dove lei lavorava come infermiera (ma questa è un’altra storia).

Porta avanti da anni il progetto “Un pallone per la legalità” in collaborazione con l’associazione Happy Bridge e UISP. Il progetto, rivolto a tutte le scuole, alle associazioni, alla società civile più in generale, si propone di trasmettere ai giovani valori etici, di educazione civica e di legalità al fine di prevenire atti di violenza, di bullismo, di razzismo, di intolleranza verso l’altro.

Ha battuto diversi record palleggiando con il pallone, ma il record più grande è stato quello di aver salvato la sua vita e quella di Giovanni. Lo scorso 10 agosto, ripartendo proprio dall’ex OPG di Reggio Emila, ha percorso un chilometro palleggiando.

Della sua storia uscirà presto un libro ed è allo studio anche la sceneggiatura di un film (ma Fabrizio lo dice con un certo distacco, privo di risvolti narcisistici).

*OPG. La legge n. 81 del 2014 ha fissato alla data del 1° aprile 2015 la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Al loro posto sono sorte le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) che hanno costituito una concreta alternativa alla logica manicomiale.