La giustizia di comunità: comprendere e spiegare i vissuti dei rei e delle vittime

 a cura di Miriam Kornfeind

Martedì, 2 aprile 2024

 

Elisabetta Burla, avvocato penalista al suo secondo mandato come Garante per i diritti dei detenuti nel Comune di Trieste, ci spiega l’importanza delle “porte girevoli”, nell’accezione positiva dell’espressione, della possibilità cioè, per i detenuti che ne hanno acquisito il diritto, di uscire per svolgere assieme ad altri qualche attività utile, e per i cittadini liberi, di entrare in carcere per conoscerne i retroscena e condividere con le persone ristrette dei momenti di cultura, di arte e di convivialità. Ci parla anche di vittime e di prevenzione…

 

Sei al tuo secondo e ultimo mandato, che si concluderà allo scadere della Giunta Comunale nel 2026. Rispetto alla tua prima esperienza nel ruolo di Garante che cosa ti sembra sia cambiato dentro e fuori il carcere?

Durante il mio primo mandato mi ero concentrata soprattutto sul lavoro all’interno della Casa Circondariale di via Coroneo. Avevo promosso alcune attività culturali coinvolgendo e facendo entrare in carcere persone esterne, per presentare libri o per promuovere degli incontri a tema. L’obiettivo era mettere insieme persone libere e persone ristrette, per consentire alle prime di conoscere l’ambiente e le sue problematiche, magari superando alcuni pregiudizi e stereotipi sulla vita carceraria, alle seconde di respirare altra aria confrontandosi con letture e argomenti diversi da quelli della loro quotidianità. Credo che entrare in un carcere possa essere un’esperienza davvero importante per riflettere sul significato della pena detentiva e per farsi un’idea dei vissuti che stanno alle spalle di tanti reati. Poi è arrivata la pandemia che ha bloccato tutte le attività, e riprendere è stato difficile. Ancora adesso lo è, soprattutto per l’ottenimento – per le persone detenute – dei permessi premio.

Quindi come ti sei orientata?

Attualmente all’interno della Casa Circondariale, decisamente sovraffollata, si stanno facendo dei lavori di ristrutturazione di alcuni laboratori per cui gli spazi comuni, che già erano pochi, sono ancora di meno e vengono utilizzati prevalentemente per i percorsi scolastici (percorso medie e alfabetizzazione) e per i corsi di formazione, difficilmente per altre attività culturali. Inoltre, manca il personale necessario per la sorveglianza delle diverse attività. Considerate queste difficoltà mi sono proposta di lavorare di più all’esterno, promuovendo delle attività di sensibilizzazione in vari luoghi, anche nelle scuole, coinvolgendo ex detenuti o persone in misura alternativa.

Ricordi qualche esperienza particolarmente significativa?

Molto forte è stato l’incontro tra una donna detenuta in detenzione domiciliare che ha avuto molta difficoltà a farsi riconoscere, quand’era detenuta, dei permessi premio e la stessa misura alternativa e un gruppo di studenti del liceo Petrarca. Senza avanzare rivendicazioni e senza omettere le sue responsabilità rispetto al reato commesso, è riuscita a raccontare la vita in carcere suscitando interesse e un reale desiderio di capire che cosa significa essere privati della libertà, in tutte le varie e diverse sfaccettature. Da quell’incontro sono usciti arricchiti tutti: gli studenti, grati per la sua testimonianza così sincera e autentica, lei perché si è sentita veramente accolta e non giudicata. Un’altra bella iniziativa è stata l’organizzazione, negli spazi del Tribunale, di una mostra di quadri intitolata “(P)Arte da dentro”. Una donna detenuta era stata autorizzata, grazie ad un permesso premio, a partecipare, assieme ad un numeroso gruppo di volontari, all’allestimento. Per lei è stato importante potersi muovere liberamente, come gli altri, esprimere la propria creatività e relazionarsi senza “etichette” con i volontari. Anche i quadri erano appesi in modo da potersi muovere con libertà nello spazio.

Ma non è rischioso che queste persone escano dal carcere e si mescolino alla gente comune?

Al contrario, se sono autorizzate all’uscita significa che hanno alle spalle un buon percorso, valutato sia dall’équipe trattamentale (gli educatori della Casa Circondariale), sia dal Magistrato di Sorveglianza. Se la pena deve tendere alla rieducazione e alla riabilitazione di chi ha commesso un reato le uscite – accompagnate e finalizzate – concorrono a preparare la persona detenuta al suo futuro reinserimento nella società. Credo che i permessi premio dovrebbero essere concessi con maggiore frequenza. Ho in mente un signore detenuto che, nel maggio dello scorso anno, aveva ottenuto un permesso premio finalizzato alla sua partecipazione ad un’attività di raccolta fondi per l’AIRC, Associazione con la quale la locale Casa Circondariale ha sottoscritto una convenzione. Un peccato che in tale percorso non fosse stata precedentemente coinvolta un’altra persona detenuta la quale, poco dopo aver terminato di scontare la pena ha preso contatti con l’Associazione e – da volontario libero e motivato – continua a partecipare ai banchetti a sostegno della ricerca sul cancro.

Torniamo al “dentro”. Com’è la situazione attuale nel carcere triestino?

In questo momento la Casa Circondariale ospita 236 persone, su una capienza massima di 150 posti. Nella sezione per i semi-liberi (detenuti che di giorno possono uscire per lavorare, svolgere attività di studio, di formazione professionale o comunque utili alla rieducazione ed a reinserimento sociale), strutturata per accogliere 6 persone, oggi ce ne stanno 12. Il sovraffollamento è uno dei motivi per cui andrebbero incrementati i permessi premio, naturalmente per i detenuti aventi diritto, anche se stranieri. Anzi, proprio per gli stranieri intenzionati a fermarsi sul nostro territorio ma privi di una rete esterna familiare o amicale di sostegno, la concessione di permessi premio risulterebbe particolarmente utile per far loro conoscere il contesto in cui si dovranno inserire. Ma il sovraffollamento mette in evidenza anche un altro problema: l’alta incidenza di persone in misura cautelare che non solo non possono fruire di permessi premio, ma non sono nemmeno presi in carico dall’Area Giuridico Pedagogica, in quanto ancora in attesa di processo. Queste persone, prevalentemente stranieri di varia provenienza, salvo rare eccezioni per lo più legate al cambio di status giuridico, non possono accedere alle attività formative e al lavoro. È intuibile quanto possa pesare sulle condizioni psicologiche e sulla convivenza la totale inattività e l’assenza di stimoli positivi

La nostra Comunità, oltre a frequentare la Casa Circondariale, accoglie, da sempre, detenuti in permesso premio per svolgere delle semplici attività di volontariato, credendo fermamente nel valore educativo e riabilitativo di queste brevi uscite. Da alcuni mesi – come sai – ci siamo messi in un’altra avventura. Stiamo partecipando ad un progetto promosso dalla Regione, nel quale sono coinvolte altre quattro realtà del privato sociale, che intende realizzare interventi di assistenza generale alle vittime di ogni tipologia di reato. Che cosa ne pensi?

Conosco il progetto e penso sia molto importante occuparsi delle vittime di ogni tipo di reato (e non soltanto delle vittime della violenza di genere ecc.) perché ogni reato produce nella vittima delle conseguenze, più o meno gravi, e ritengo necessario aiutare le persone a riconoscere e rielaborare le conseguenze di quanto si è subito e a diventare consapevoli anche dei propri diritti di vittime. Ci possono essere delle conseguenze a livello relazionale, di salute, sul lavoro. Quindi ben venga la prossima apertura di sportelli di ascolto e di sostegno dedicati a chi ha subito un reato.

Ma l’ascolto e il sostegno alle vittime ti sembrano sufficienti per poter realizzare una reale giustizia di comunità?

La giustizia di comunità include molte cose. Secondo me bisognerebbe lavorare molto a livello di prevenzione, la giustizia riparativa dovrebbe riguardare anche la prevenzione. Mi spiego: è bene avere come obiettivo altissimo la mediazione tra autore e vittima di reato, ma non sempre questo è realizzabile. Quindi si dovrebbero accogliere, cercando di comprenderli e di spiegarli – qui sta la prevenzione – i vissuti delle vittime, ma anche quelli dei rei. Perché qualche volta sono proprio le storie e i vissuti lontanissimi tra questi due soggetti a rendere impossibile una mediazione. Qualche volta ascoltando qualcuno che ha commesso un reato si ha l’impressione che si sia trovato in una situazione nella quale “non aveva altra scelta” o non ha compreso il disvalore del proprio gesto. Su questo si dovrebbe lavorare con il reo, ma anche con la vittima, non per giustificare gli atti illegali e/o violenti commessi, ma per capirne le dinamiche, le cause profonde. E in questo percorso è fondamentale dare ascolto alle vittime, permettere loro di raccontare il proprio vissuto, le paure, le conseguenze del reato, far veicolare e comprendere il dolore provato. Potrebbe far parte del percorso riparativo di una persona che ha potuto e saputo riflettere e rielaborare criticamente i reati commessi, raccontare il suo percorso, raccontarlo nelle scuole, raccontarlo a quelle parti di società civile che desiderano approfondire e capire le complesse dinamiche che portano alcuni a commettere reati. La maggiore comprensione di queste dinamiche potrebbe offrire dei preziosi suggerimenti per prevenirle.

Grazie Elisabetta per il tuo impegno a favore dei diritti dei detenuti, ma non solo.