Pensare la fine

di Fabio Denitto

8 agosto 2022

Diciamoci la verità: eravamo troppo presi dal nostro vivere quotidiano per dar bado a quanto gli scienziati ci dicevano da anni sui cambiamenti climatici. Pensavamo, al massimo, che fossero cose che riguarderanno le generazioni future. All’improvviso però, in questa estate 2022, siamo stati travolti da ondate di calore insopportabili e da una siccità mai vista prima. Ma è stata la visione, inquietante, della nube di fumo proveniente dai roghi sul Carso, che ha gravitato sulla nostra città per giorni interi, a svegliarci, a farci capire che Madre Natura ha già cominciato a presentarci il conto per le violenze che abbiamo perpetrato nei suoi confronti.

Ecco allora che vengono utili le informazioni sui cambiamenti climatici da parte di scienziati, climatologi e giornalisti. Uno per tutti, Marco Pacini nel suo libro Pensare la Fine. Discorso pubblico e crisi climatica (Meltemi Editore, 2022) che riassume studi di decenni sull’argomento. Già l’incipit del libro è un pugno nello stomaco. “Siamo davvero a corto di metafore se continuiamo a parlare di guerra del clima. Se di una guerra si tratta, l’abbiamo già persa, e ora dobbiamo gestire una ritirata strategica per ridurre al minimo le conseguenze”. Non è però un catastrofista Marco Pacini, ma un realista che ci invita a riflettere sulle catastrofi future per decidere come affrontarle.

Che catastrofi ci saranno è certo dal momento che il limite di 1,5 gradi di aumento della temperatura globale entro il 2050, come previsto dai trattati di Parigi, saranno con ogni evidenza superati. Il tragico è che probabilmente anche il limite di 2 gradi sarà superato (alcuni parlano di 2,9 gradi a fine secolo) dal momento che le misure, decise e intraprese dai vari Stati nelle varie COP, sono sempre in ritardo rispetto alla reale necessità. I quali Stati sono incatenati al cosiddetto doppio vincolo, una specie di schizofrenia energetica. Da una parte il terrore di una carenza energetica che la nostra società non si può permettere da cui, anche in pieno COP 26, la costruzione 211.849 chilometri di oleodotti e gasdotti e 168 miliardi di dollari spesi nei tre anni precedenti per esplorare nuovi giacimenti. Dall’altra la consapevolezza, ormai diffusa tra i governi, della necessità di ridurre le emissioni di CO2. È questa schizofrenia a spiegare la “prudenza” nel prendere decisioni drastiche. Simbolo di questo atteggiamento le parole pronunciate da Bush a Rio nel 1992 “Lo stile di vita americano non è negoziabile”.

Ma quei due gradi (o forse più) a fine secolo rischiano di scatenare reazioni a catena non più controllabili come lo scongelamento del permafrost, l’emissione di idrati di metano e la morte delle foreste pluviali. Siamo all’Apocalisse. Dopo la quale, forse, un mondo abitato solo da due o tre miliardi di persone potrebbe essere una possibilità.

In questo discorso come collocare il concetto di sviluppo sostenibile? L’autore è categorico a questo proposito: è un ossimoro, non può esistere uno sviluppo sostenibile! Fa l’esempio con l’auto elettrica. Il litio, il minerale necessario per le batterie elettriche, necessita di due milioni di litri d’acqua per una tonnellata di materiale estratto con la conseguenza della desertificazione della zona delle Ande dove si estrae perché è stata consumata il 65% dell’acqua disponibile nella zona. Ancora una volta, perciò, l’inquinamento non più prodotto nelle nostre città grazie a pannelli solari e automobili elettriche viene semplicemente ricollocato nelle zone povere del mondo dove si estraggono le risorse minerarie. Il fatto è che parole come green e transizione ecologica, secondo l’autore, rischiano di essere soltanto un espediente retorico per mascherare un dato fondamentale: non si esce dalla crisi climatica se non si cambia modello di sviluppo basato ora sul capitalismo che per sua intima natura non può che pensare ad uno sviluppo continuo, predatorio e disequilibrato nei riguardi della Natura. Parlare di sviluppo sostenibile, perciò, è voler salvare “capra e cavoli”. Impossibile!

Molti ipotizzano la nascita di una sorta di eco-socialismo guidato da una struttura sovranazionale che guidi la vita economica non puntando al profitto, ma alla salvaguardia dei beni naturali indispensabili alla vita umana. Perché la decrescita non sarà felice o infelice, ma obbligata! Ridurre perciò lo sviluppo economico soprattutto nel Nord del mondo è una priorità assoluta. Ma c’è da chiedersi se questi immani cambiamenti saranno compatibili con i riti delle democrazie e la sovranità dei popoli oppure l’umanità vedrà affermarsi forme nuove di poteri coercitivi, accettati dalla opinione pubblica di fronte agli immani disastri patiti o temuti. Poteri coercitivi che forse, soli, potranno imporre l’altra soluzione ai cambiamenti climatici: una forte diminuzione programmata della popolazione nel Sud del mondo.

L’uomo cioè dovrà impegnarsi in una Grande Ritirata per non far collassare il sistema Terra. Abbiamo detto all’inizio che Marco Pacini non è un catastrofista, perciò, concludiamo con le parole di chiusura del suo libro. “Il che fare? ha una sola risposta: diminuzione rapida della pressione antropica sul sistema Terra attraverso un Piano per una decrescita economica e demografica globale, pianificata ed equa”. Faremo in tempo?